Negli anni ’90, quando il fenomeno delle posse italiane prendeva forma tra centri sociali, hip-hop militante e sperimentazioni linguistiche, in Sardegna nasceva un’esperienza destinata a lasciare un segno duraturo: i Dr. Drer & CRC Posse. In un contesto distante dai grandi poli culturali come Roma, Bologna o Milano, Michele Atzori (in arte Dr. Drer), Mauro Mou (Mau) e Alessandro Pintus (Alex P.) hanno saputo reinterpretare la cultura rap adattandola alla loro realtà locale, fondendo hip-hop, raggamuffin, tradizione sarda e impegno politico.
Se le posse rappresentavano una risposta collettiva alle contraddizioni sociali e al bisogno di raccontare voci marginali, i Dr. Drer & CRC Posse hanno incarnato perfettamente questo spirito, con un approccio originale e unico: testi bilingue in sardo e italiano, eventi gratuiti aperti a tutti, e un messaggio di resistenza culturale che si è trasformato in un vero manifesto politico. La loro musica non è mai stata solo intrattenimento, ma strumento di denuncia, di identità e di comunità.
Ancora oggi, dopo oltre trent’anni di carriera, il gruppo è attivo nella scena musicale e sociale, continuando a portare avanti battaglie per la difesa dell’ambiente, la valorizzazione della lingua sarda e la critica alle dinamiche di potere. Dai brani più noti come Su Sardu Alfabetu ed E la chiamano democrazia fino alle performance live che trasformano i concerti in esperienze di vera communitas, Dr. Drer & CRC Posse dimostrano che il fenomeno delle posse non appartiene solo al passato, ma può ancora oggi parlare al presente e al futuro.
In questa intervista esclusiva, i Dr. Drer & CRC Posse ci raccontano le origini del progetto, l’importanza dei live come spazio di aggregazione, il rapporto con i social network e i nuovi orizzonti della loro musica.
Intervista a Dr. Drer & CRC Posse
- Ciao Dr. Drer e CRC Posse, benvenuti! Siete nati negli anni ’90 a Cagliari, che ruolo ha avuto per voi la realtà dei centri sociali? Stuart Hall parla di ri-significazione ovvero di prendere un qualcosa di già esistente e farlo portavoce di una realtà controculturale; cosa ha voluto dire adattare l’hip-hop americano alla cultura sarda?
Ciao a Voi e grazie per averci invitati e per l’attenzione.
Sì, il gruppo nasce, nel suo primissimo nucleo, a Cagliari negli anni ’90, gli anni delle Posse, precisamente nel 1991.
I centri sociali sono stati una realtà quasi esclusivamente percepita e idealizzata dalle nostre parti in quanto a Cagliari non ce n’erano. Cagliari non era né Roma, né Bologna, né Milano, città diversissime per dimensione, ingredienti sociali, suggestioni e apporti umani “alloctoni”. Ovviamente, grazie anche ai dischi di Onda Rossa Posse, Isola Posse All Stars, Leoncavallo Posse, capivamo la complessità di quelle realtà, il loro impatto nel contesto sociale e urbano e quanto fosse impattante e innovativo il lavoro di produzione musicale che usciva dai loro “studi” che, in ultima istanza, arrivava anche a noi coi dischi. Ma, a parte quello e le testimonianze degli amici che, studiando “in continente”, bazzicavano in quell’orbita e avevano la fortuna di poter assistere ai concerti, le informazioni erano poche, carpite da qualche fanzine e/o da trasmissioni radiofoniche alternative. Arrivava comunque il messaggio, che era il risultato auspicato ed auspicabile, confezionato in una veste musicale quasi avanguardistica che, anche per chi già seguiva il rap americano, rappresentava un esempio illuminante e motivante per prendere coscienza e dire: “è bellissimo, potremmo provarci pure noi”. Però, paradossalmente, avvantaggiati dalla distanza e dall’essere “lontani”, equidistanti da America ed Italia, pronti ad elaborare tutto con la nostra visione e attingendo alla nostra cultura. Stuart Hall parla di riadattare l’esistente a una diversa cultura ma, a nostro parere, abbiamo fatto inconsciamente un lavoro più complesso: non abbiamo “tradotto e riadattato” i canoni americani o quelli italiani derivati da quelli americani ma abbiamo, immediatamente, usato dei codici palesemente universali nella loro forza innovativa per creare musica “sarda” a tutti gli effetti, campionando suoni tradizionali a noi familiari e scrivendo da subito e naturalmente – bypassando l’inglese – testi in lingua sarda che, a livello di metrica, di flow e di lessico non fossero la copia di nulla. L’esigenza era quella di fare una cosa originale, credibile e contestualizzata, una cosa “vera”. È stato istintivo e naturale ed è percepibile, persino nelle cose riuscite meno bene.
[nota (senza alcun intento polemico): nel reel su IG si dice “più di 25 anni”, dato correttissimo ma che, fattualmente, non ci colloca perentoriamente nella prima metà degli anni ’90 come avrebbe potuto fare dire “più di 30 anni”. Ciò immedesimandomi nella percezione e nella logica di chi vedrà il reel. Ma va benissimo com’è, la sostanza è che ci siamo da tanti anni]
2) Mi ha colpito molto vedere come la dimensione dei live sia centrale nella vostra attività. Cosa significa per voi costruire una communitas (comunità di persone riunite per uno stesso scopo)? Che rapporto avete con il pubblico?
Il momento live è, ovviamente, topico; è, allo stesso tempo, il punto d’arrivo di un processo creativo che arriva alla sua forma “fisica” ed il punto d’inizio del processo medesimo, che si alimenta delle sensazioni, delle suggestioni e dell’impronta emotiva di quel momento. La “communitas” è tutto quel piccolo universo che si condensa per l’evento. Non c’è distinzione tra “chi suona”, “chi ascolta” e “chi lavora” ma possiamo dire che si crea un unico grande palco virtuale in cui tutti partecipano attivamente all’arrangiamento generale: pubblico, tecnici, barman, amici, conoscenti, passanti, noi, ecc.
Si tratta di un rapporto molto spontaneo, articolato ben oltre il biunivoco e la semplice fruizione musicale e, ovviamente, ci assorbe completamente e, ancora oggi, ci è indispensabile per continuare ad esistere.
3) Al giorno d’oggi i social network sono diventati i nuovi potenziali centri sociali, secondo voi hanno lo stesso potere aggregativo e di educazione sociale dei tradizionali centri sociali degli anni ’90?
Tornano alla prima risposta, non avendo esperienza diretta rispetto alla vita dei centri sociali, dobbiamo necessariamente basarci sul vissuto locale. Sicuramente (e senza fare i nostalgici) l’aggregazione fisica, mossa da interesse comuni e dal desiderio di confrontarsi per imparare e crescere, nonostante la difficoltà a fare “network preventivo”, creava connessioni umane molto salde che, quasi sempre, si cementavano con un’amicizia spontanea, spesso sincera. Al giorno d’oggi, con le piattaforme social, il “network” è una proposta, un’etichetta, un modo di interagire secondo regole informatiche, apparentemente libero e senza limiti ma, di fatto, costantemente filtrato e indirizzato, soprattutto a scopo di lucro. In un contesto simile la convergenza a livello umano, quella spontanea e “ingenua” ma fortemente empatica che crea la “community” vera non può essere un esito scontato ma diventa un’eccezione ad opera di singoli che vanno oltre, che superano il mezzo. Quindi, di fatto, il “centro sociale virtuale” inteso come evoluzione di quello “storico” non può esistere ma, volendo, è una nuova infrastruttura che offre delle possibilità di connessione in cambio di cessione di dati e interazioni costanti. Dovremmo ridefinire il concetto di “centro sociale” degli anni ’90 e ’00 e forzarlo pesantemente per dire che, adesso, lo stesso ruolo ce l’hanno i social. Sarebbe una violenza logica ed etimologica.
4) (A Michele Atzori, aka Dr. Drer) Michele, la tua attività artistica non si ferma al rap. Quanto il tuo percorso narrativo e teatrale come Su Dotori influenza il progetto dei CRC Posse?
MICHELE: “Certo, credo che si possa ragionare su queste influenze:
Strutturazione delle canzoni come mini-racconti/spettacoli: le canzoni non sono solo versi + beat, ma contengono introduzione, sviluppo di conflitto, descrizione di ambienti, epiloghi, figure che si muovono in contesti drammatici o simbolici. Questo simile a un piccolo atto drammatico.
Voce narrante / incarnazione: noi non ci limitiamo a “cantare”, ma incarniamo voci, “personaggi” reali o collettivi; questo è simile a ciò che succede nel teatro di narrazione, dove il narratore, pur non interprete teatrale in senso classico, porta in scena la sua identità, il suo vissuto, o intreccia memoria personale e collettiva.
Scenografia implicita / visualità: nei video, nei live, l’allestimento visivo, l’uso del palco, la scelta delle location, la partecipazione del pubblico, tutto ciò ha elementi che vengono anche dal teatro, o dal performativo; contribuisce a dare peso alla narrazione.
Coinvolgimento del pubblico / comunità: come nel teatro civile o di narrazione, la dimensione del “noi” è centrale: la lingua sarda, l’identità culturale, il contesto isolano. Non è solo intrattenimento, ma rivendicazione, memoria, appartenenza”.
5. (A Mauro Mou aka Mau) Mauro, ho avuto piacere di vedere una tua intervista a RadioSmart con dei ragazzi. Pensi che le giovani generazioni possano ancora avvicinarsi al rap come strumento di rivendicazione sociale? In che modo potrebbero farlo?
Guarda, secondo me si può dire tranquillamente che il rap, prima nel mondo e poi in Italia tra la fine degli anni ’80 e i ’90, è stato davvero uno strumento importante per i movimenti giovanili, soprattutto per quelli legati alle rivendicazioni sociali. Un po’ come in altri periodi storici lo erano stati altri generi musicali. Oggi direi che, per alcuni, resta ancora un mezzo di protesta politica, però in generale il rap è diventato soprattutto cultura pop, con tutte le sue sfumature e declinazioni. Da genere alternativo è diventato la musica più diffusa degli ultimi quarant’anni, e ha influenzato praticamente tutti: anche chi all’inizio lo snobbava o lo vedeva come qualcosa di completamente esterno, poi si è ritrovato a fare i conti con le novità che portava, sia sul piano musicale che su quello linguistico. Se in futuro sarà ancora uno strumento di lotta sociale, questo non lo so. Quello che penso è che sicuramente non sarà il rap così come lo conosciamo oggi, ma piuttosto una sua evoluzione, proprio come la società si è evoluta in questi decenni. Però una cosa è certa: ci sarà sempre qualcosa che avrà a che fare con il rap e con la sua forza comunicativa e creativa. Del resto, il rap stesso è nato da linguaggi che già esistevano, quindi trasformarsi è proprio nel suo DNA.
6. (Ad Alessandro Pintus aka Alex P) Alessandro ti occupi delle basi dei progetti dei CRC Posse. Come è cambiato il tuo modo di fare il dj negli anni? E’ stata una sfida inserire strumenti della tradizione sarda, come è successo nell’album Cabudanni?
Le nostre produzioni sono il frutto di un lavoro collettivo. Tutti siamo arrivati, chi prima e chi poi, ad acquisire skill sufficienti per registrare, campionare e comporre, grazie anche all’evoluzione dei software dedicati. Pertanto, in realtà, seguiamo un processo che non pone limiti o ruoli prestabiliti: chiunque, nel gruppo, se ha un’idea la propone (anche già come “bozza” avanzata) e la si discute e sviluppa assieme, passando anche ad uno step successivo con co-produttori esterni. Capita, quindi, che l’intuizione di uno venga arricchita da una linea melodica pensata da un altro, oppure che si parta da un ritornello e gli si associ un sample o un riddim, o ancora che si lavori a un arrangiamento complesso in 6 e, poi, la base creata per il brano A venga utilizzata per il brano B. Non ci sono regole e, perciò, anche ammesso che personalmente possegga più skill tecniche, le basi non sono e non saranno mai pertinenza esclusiva di Alessandro. Per quanto riguarda l’utilizzo degli strumenti tradizionali sardi, presenti anche negli album precedenti, in realtà, essendo sonorità a noi familiari, l’inserimento è abbastanza fluido. L’importante è sempre avere chiara “l’idea” perché è l’elemento che legittima e dà credibilità alla scelta del suono. Il procedimento è molto sperimentale ma anche divertente e, nel caso di Cabudanni, potendo contare su un team di produttori di eccellenza (Coronas, Piraz, El Moka), le nostre idee – evidentemente valide – sono state impreziosite e valorizzate, arrivando a diventare delle perle di cui, almeno personalmente, sono molto orgoglioso. Rispetto al ruolo di dj sostanzialmente si è aggiunta più tecnologia alla consolle: ai piatti e al mixer si affianca un laptop che consente di gestire basi ed effetti e, col DVS (Digital Vinyl System), di manipolare qualsiasi suono da disco codificato. La romantica – e pesante – “valigetta dei dischi” ormai rimane a casa.
7. Quali pensate siano i nuovi orizzonti per il vostro progetto musicale?
Fortunatamente, per tantissimi motivi, il nostro orizzonte è sempre molto prossimo, nel senso che quasi possiamo toccarlo. Dopo così tanti anni – e per ovvie questioni – le priorità “artistico-espressive” sono cambiate e ci tengono molto focalizzati sul presente ed il futuro molto prossimo. Ci interessa principalmente continuare ad avere qualcosa da dire e/o da raccontare e trovare il miglior modo possibile per farlo, tramite la ricerca sonora continua, la scrittura che segue il suo percorso evolutivo, il confronto interno tra persone che, ormai, hanno un rapporto superiore all’amicizia e – soprattutto – la voglia di portare cose nuove da ascoltare e su cui ragionare nel contesto di quel grande palco-communitas sopracitato. Una cosa è certa: non porteremo mai in scena la tribute band della cover band di Dr.Drer & CRC Posse, a meno che non sia una modalità EELST degnamente e volontariamente scelta ma indegnamente e malamente applicata.
8. Se poteste usare solo 3 parole per poter descrivere i CRC Posse quali sarebbero e perché?
Ufficialmente direi: TRUMA (gruppo), CONTAI (raccontare) e SPÀSSIU (divertimento)
Ufficiosamente: FRIGO, FAYA e MOJITEDDU (They know what I mean)